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La Scampia di Gomorra, la Città del Vaticano di Young Pope o il parco tecnologico abitato da robot di Westworld condividono tutti la stessa situazione di isola infelice da cui non è possibile uscire. Abbiamo incontrato Nicola Lusuardi, story editor di Sky Italia, per capire la strana geografia di alcune delle serie televisive più importanti degli ultimi anni.

“Hai scoperto molte cose dalla tua venuta in questa abbazia ma la scorciatoia attraverso il labirinto ti è ancora ignota.”

La citazione è dal film Il nome della Rosa, il classico anni ’80 tratto dal romanzo di Umberto Eco cui, dopo infinite repliche televisive e cineforum scolastici, nessuno di noi è riuscito a scampare. Proprio l’edulcorata versione cinematografica diretta da Jean-Jacques Annaud è stata, per tanti, il primo incontro al tema del labirinto. Eco, ovviamente, strizzava l’occhio al nobile padre di queste tematiche: Jorge Luis Borges, da cui – non a caso – il perfido antagonista del romanzo prendeva il nome.

Proprio questa scrittura dedicata allo smarrimento è tornata oggi prepotentemente di moda nella più recente produzione seriale televisiva. Chi ha seguito la prima stagione di Westworld lo sa bene. Ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la nuova serie è terminata giusto la scorsa domenica con una puntata “monstre” da 90 minuti, e ha battuto tutti i record precedenti della HBO, accumulando ben 12 milioni di spettatori tra le varie piattaforme in cui è stata trasmessa. Questo incrocio di punti d’accesso alla storia (televisione, streaming, forum di discussione online eccetera) ha moltiplicato ulteriormente i piani narrativi su cui lo stesso Westworld è fondato. La storia dei robot intrappolati in un parco divertimenti per facoltosi umani in cerca di emozioni forti ha da subito preso l’aspetto di un dedalo fatto di sottotrame, piani temporali dove passato e presente sono del tutti indistinguibili. Un mondo abitato da personaggi strettamente interconnessi tra loro ma al di fuori del quale non conosciamo nulla. Infatti, il mondo “reale” oltre il perimetro del parco non viene mai mostrato. Nulla di ciò che esiste oltre quei confini sembra avere senso e importanza.

Il concetto stesso di labirinto è uno dei temi centrali della trama: un dedalo apparentemente irraggiungibile, probabilmente metaforico, verso il quale tutti i protagonisti sono attratti. E già qui il livello di metanarrazione è così vertiginoso che, per continuare, servirebbero un paio di Travelgum.

“Avevo percorso un labirinto, ma la nitida Città degl’Immortali m’impaurì e ripugnò. Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine. […] Questa Città (pensai) è così orribile che il suo solo esistere e perdurare, sia pure al centro di un deserto segreto, contamina il passato e il futuro e in qualche modo coinvolge gli astri. Finché durerà, nessuno al mondo potrà essere prode o felice.” (Jorge Luis Borges, L’immortale)

Il deserto segreto è il nulla che circonda il parco della serie, un luogo di cui non ci è dato sapere la posizione e che ci costringe a chiederci se esista davvero una realtà al di fuori della sua finzione.

Lo abbiamo già detto: in fatto di labirinti, nessuno soffia il titolo di maestro a Borges. L’immortale, uno dei suoi racconti basati proprio sulla descrizione di dedali, si gioca su differenti prospettive, piani temporali e paradossi, dove immaginazione e realtà si fondono fino a essere indistinguibili. Westworld, serie colta e dal retrogusto intellettualoide, sembra voler recuperare a tutti i costi tante di queste suggestioni letterarie. Chi sono gli “Immortali”, se non i robot rinchiusi nel parco? Il labirinto di cui scrive Borges somiglia all’intreccio disegnato da Nolan e Joy, che confondono diversi piani temporali in ogni singola puntata con il solo obiettivo di confondere gli uomini, ovvero noi spettatori. Il deserto segreto, infine, è il nulla che circonda il parco della serie, un luogo di cui non ci è dato sapere la posizione (anche se qualcuno ne ha scoperto la collocazione temporale); un luogo che ci costringe a chiederci se esista davvero una realtà al di fuori della sua finzione.

La scrittura ultradensa, complessa e misteriosa di Westworld è la stessa che abbiamo imparato a conoscere in show come Lost. Eppure questo senso di smarrimento e solitudine è vicino anche a quello che si prova seguendo altre delle serie di maggiore successo degli ultimi tempi, soprattutto italiane. Pensateci bene: la stessa sensazione di totale isolamento l’abbiamo provata in Gomorra. Anche in quel caso, Scampia si trasformava in un luogo al di fuori del quale non esisteva nulla. Certo, c’era qualche scappatella in Germania e Spagna o nella Milano metropolitana. Ma nessuno degli altri possibili protagonisti di questa storia ha mai avuto davvero diritto di cittadinanza. Polizia, giornalisti, magistrati, la società più o meno civile di Napoli sparisce: tutto quello che rimane è l’intreccio dei camorristi all’interno di un quartiere che somiglia proprio alla misteriosa isola di Lost, da cui è impossibile entrare o uscire di propria volontà.

Ma l’isolamento non è solo quello di Scampia. Prendiamo The Young Pope: il giardino recintato in cui si ambienta l’azione è quello di Città del Vaticano; al suo interno si dipanano le trame e i sotterfugi di cui il papa belloccio interpretato da Jude Law è, a seconda dei casi, vittima o ideatore. In Gomorra e in The Young Pope, proprio come in Westworld, la fetta di mondo che ci viene data in pasto è estremamente limitata, eppure è difficile da decifrare. Proprio come la mappa di un labirinto.

A tenderci un filo d’Arianna è Nicola Lusuardi, uno dei massimi esperti italiani di serialità televisiva. Sceneggiatore, story editor, autore de La rivoluzione seriale e docente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, da qualche anno Lusuardi è anche consulente editoriale per Sky Italia, dove supervisiona il lavoro degli autori sulle produzioni originali. Le sue collaborazioni includono 1992, 1993, e l’adattamento italiano di In Treatment.

L’occasione che ha Lusuardi di analizzare, studiare e verificare una moltitudine di copioni gli permette di osservare il nostro labirinto da una posizione privilegiata, magari scorgendone l’uscita. Ed è proprio dal labirinto che cominciamo la nostra conversazione. Come mai seguendo i camorristi di Gomorra, i dissidi del giovane Papa o i turbamenti degli androidi di Westworld ci sentiamo egualmente chiusi in un recinto da cui non c’è uscita? “Stai citando tutti prodotti naturalmente global, nati per essere compresi e generare affezione in un pubblico mondiale, e per attraversare i confini della cultura che li ha ideati. Il prodotto global si distingue proprio per questo: lo sviluppo è guidato nella pertinenza al tema di cui stai parlando, ed essere pertinenti significa sapere cosa tenere dentro e cosa lasciare fuori dalla storia. Il tuo racconto sarà capace di parlare al mondo nella misura in cui non si concede nulla che non sia strettamente pertinente al tema che ti sei dato. Questo significa definire lo spazio di realtà che ti serve escludendo tutto ciò che rimane fuori”.

Una semplificazione che risulta ancora più incomprensibile a chi è cresciuto con le avventure del Commissario Cattani de La Piovra. “La nostra televisione local è nata nel pregiudizio culturale di essere per le casalinghe. Per noi il televisore era un elettrodomestico, una specie di specchio che ti sta davanti, in cui vedere persone, eventi, fatti ed emozioni che sono quelli vicino a te. Questo principio di rispecchiamento ha guidato i processi locali che generano la fiction di cui ci siamo lamentati fino a oggi. Una produzione di questo tipo, anche quando è ben fatta, tende a essere local perché il patto che fa con lo spettatore è: ‘Quello che vedi nel televisore è la realtà che c’è attorno a te’, mentre la fiction global ti dice: “Guarda nel televisore, ché ti parlo di te”.

Definire lo spazio di realtà che ci serve, escludendo il resto, è un’operazione complicata. Per una serie, il lavoro di ricerca è essenziale, ma la riuscita di queste storie dipende quasi esclusivamente dalla capacità di capire dove bisogna fermarsi con le spiegazioni.

Gomorra, Young Pope e Westworld fanno pensare a serie costruite su due diverse velocità. Da una parte si scava in profondità alla ricerca di ciò che è più verosimile, e dall'altra si stende un velo su tutto ciò che non dobbiamo vedere per preservare la nostra sospensione dell'incredulità.

Qual è il confine tra una realtà utile al racconto e una che, invece, rischia di danneggiarne l’esistenza? Il lavoro di approfondimento sul linguaggio delle periferie in Gomorra, così come lo studio dei cerimoniali cattolici in Young Pope, o le infinite righe di codice in Westworld, fanno pensare a serie costruite su due diverse velocità. Da una parte si scava in profondità alla ricerca di ciò che è più verosimile, e dall’altra si stende un velo su tutto ciò che non dobbiamo vedere per preservare la nostra sospensione dell’incredulità. “In Italia abbiamo fatto enorme confusione tra il realismo come poetica e il realismo come effetto estetico. Abbiamo avuto una stagione meravigliosa come il Neorealismo, che era un manifesto poetico che affermava la funzione dell’autore e dell’opera nel mondo. Questo pensiero si è radicato in maniera molto forte, trasformandosi da manifesto poetico in ideologia, stabilendo dunque una definizione di realtà e diventando soverchiante. Tutto questo ha fatto passare in secondo piano una cosa che, per chi fa il mio mestiere, è molto utile, ovvero una definizione operativa di realismo, non come manifesto poetico ma semplicemente come regola da seguire per attenermi alla mia storia. Il realismo come funzione estetica dice che, nel tuo scrivere, devi essere attaccato alla realtà a parte quando devi rappresentare il tema. Se devi parlare di Scampia, tutto deve essere proprio come Scampia. D’altra parte, però, essendo Gomorra una serie “arena driven” che parla delle logiche del potere, nel momento in cui ti dai come regola silenziosa l’idea che in quel luogo la polizia non c’è, e lo stato non esiste, allora smetti di essere attaccato alla realtà. Se il tuo tema sono le logiche del potere, allora per raccontarlo hai bisogno di descrivere Scampia come un regno isolato, come fosse un regno di Game of Thrones“.

Se la sensazione di straniamento è simile, dietro ai nostri tre esempi ci sono scelte tecniche e narrative estremamente diverse, che vanno molto in profondità. L’isola infelice di Westworld o l’enclave di violenza di Scampia non somigliano in tutto e per tutto al paradiso in terra in cui passeggia beato il Lenny Belardo di Paolo Sorrentino. Questo perché, spiega Lusuardi, “Gomorra e Young Pope appartengono a due paradigmi narrativi completamente diversi. Gomorra è quella che chiamiamo una serie ‘arena driven’, così come lo è 1992. Questo vuol dire che tu metti a fuoco e definisci un un perimetro che può essere un luogo fisico o metaforico che è in guerra, e tutti i personaggi all’interno di quel luogo non possono sottrarsi al conflitto. La narrazione scivola di personaggio in personaggio, un po’ come succede con classici come The Wire. Nel caso specifico di Gomorra, l’arena è Scampia e, se il racconto è incentrato su quel luogo con tutte le tensioni che lo muovono, allora Scampia trascende il suo essere Napoli, si isola e diventa un regno con una serie di lord che ci contendono il diritto di dettare le regole. Young Pope è diverso perché è un puro ‘character driven’. Se nell’‘arena driven’ la fonte dei conflitti è il luogo, nel ‘character driven’ è invece il personaggio. In Young Pope nulla di quello che succede accadrebbe se Lenny Belardo non fosse quell’essere umano incasinato, spaccato tra il Papa tirannico e l’orfano bisognoso d’affetto dei suoi genitori. La stessa cosa accade in altre serie come Mad Men o Breaking Bad. Semplificando, possiamo dire che nell’arena driven la questione che si pone è: ‘questo luogo ha un grande problema’. Nel character driven, invece, è: ‘questo uomo ha un grosso problema’.”

Nella mia vita precedente ho avuto la fortuna di fare uno dei lavori più inutili al mondo: il tester di videogiochi. La mia giornata era dedicata a terminare il gioco che mi era stato affidato nel maggior numero di modi possibili. Una volta attaccando briga con tutti e combattendo con ogni nemico, un’altra procedendo solo di nascosto, e via di seguito fino all’esaurimento delle alternative. Un risultato familiare anche a chi ha appena finito di vedere la prima serie di Westworld. La condanna a ripetere le proprie azioni secondo una storia decisa a priori è il problema principale dei robot protagonisti della serie. Il rapporto della serie con il mondo videoludico è qualcosa che aleggia nell’aria già da diversi mesi oltre a essere, più in generale, un argomento vecchio come il mondo (Nirvana di Salvatores, per esempio) che non siamo ancora riusciti a scrollarci di dosso. Per Lusuardi, sono territori limitrofi non ancora in grado di sovrapporsi: “Ci sono dei punti di contatto perché il videogioco e la narrazione seriale possono essere parte di uno stesso universo narrativo, dando diverse visioni estetiche di uno stesso mondo. L’osmosi tra i due mezzi, però, al momento è praticamente nulla. La narrazione del videogioco dal mio punto di vista è funzionale ad altro: chi gioca cerca gratificazioni diverse da chi consuma il racconto televisivo. I due mezzi possono cooperare allo stesso mondo transmediale, ma non condividono le stesse tecniche narrative”.

Come già era accaduto con Lost, con Westworld il rischio è quello di perdersi non solo nel labirinto narrativo di ogni puntata, ma anche in quello costruito su piattaforme esterne a quella televisiva.

Eccola lì, la parola chiave: transmediale. Uno di quei termini gassosi che aleggiano nell’aria e che di tanto in tanto acquistano concretezza. Westworld è stata la tempesta perfetta per le operazioni tra più piattaforme. Merito del tema fantascientifico, e di due sceneggiatori bravissimi a lasciarsi alle spalle una miriade di mollichine di pane che milioni di spettatori nel mondo hanno pazientemente raccolto e condiviso, solo per scoprire che una vera e propria uscita dal bosco ancora non c’è. È successo su Reddit, innanzitutto, ma anche nel diversi siti ufficiali della serie, che ne espandono la narrazione e la infittiscono in densità. Come già era accaduto con Lost, con Westworld il rischio è quello di perdersi non solo nel labirinto narrativo di ogni puntata, ma anche in quello costruito su piattaforme esterne a quella televisiva. “Penso che ci sia una quota del mercato creativo statunitense molto matura che pensa e auspica la conversazione attorno al prodotto e tutte le espansioni creative che può generare. In quella concezione dell’audiovisivo si pensa per franchise e, quindi, in modo transmediale. È una cosa necessaria, auspicabile, ma si tratta di un alfabeto che non è stato ancora metabolizzato dall’ambiente creativo e distributivo europeo”.

Eppure proprio Gomorra o Young Pope sono casi di una serialità originale italiana che è in grado di farsi ascoltare da un pubblico internazionale. Merito di una continua dialettica tra le già citate riflessioni su narrazione local e global, ma anche di un “fattore x” che ha saputo trasformare l’Italia in una terra franca in grado di portare valore aggiunto all’immaginario internazionale. “Se questi numeri minuscoli significano qualcosa, allora testimoniano la nostra libertà mentale di immaginare le cose, di pensare al di fuori di schemi e di creare luoghi non ovvi – una libertà forse un po’ maggiore di quella di altri paesi”. Ci hanno raccontato per decenni che la produzione americana ci avrebbe fatto il lavaggio del cervello, che un altro mondo non sarebbe stato possibile e, invece, proprio adesso ci troviamo nella posizione di ribattere la palla al mittente? Lusuardi, fortunatamente, ha una risposta anche per questo: “Quella del lavaggio del cervello era una sciocchezza dovuta al moralismo che affligge i nostri discorsi politici e culturali. L’aver assorbito questo tipo di produzioni ci ha dato dei nuovi strumenti, il nostro problema è stato quella di resistere troppo a lungo nell’ascoltarne l’insegnamento”.

Andrea Girolami
Giornalista e autore video ha lavorato per MTV e Wired Italia. Per Indiana Editore ha scritto il libro dedicato alla cultura digitale Atlante delle cose nuove. Pensa di essere un ottimo ballerino, ama fare il DJ ai matrimoni.

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