Carico...

Woody Harrelson ha diretto il primo film dal vivo della storia, proiettato in diretta in 500 cinema negli USA.

Sembra strano dirlo, ma prima che risorgesse dalle proprie ceneri come idolo del cinema indipendente e dei franchise, prima che fosse il texano dagli occhi di ghiaccio in grado di fare qualsiasi cosa (persino da maestro a Han Solo), c’è stato un periodo della sua carriera in cui Woody Harrelson era nei guai.

Non guai grossi, chiariamoci. Fino a un paio d’anni prima la sua parabola di attore era stata relativamente redditizia, fruttandogli ruoli da protagonista. Ma era il 2002 e le recensioni lo ricordavano ancora per un personaggio che aveva interpretato quasi dieci anni prima (Mickey Knox in Natural Born Killers); quando gli andava male, invece, gli citavano Cin Cin. “Woody Harrelson, stella del firmamento di Cin Cin”: serie tv rispettabile, non ci piove, ma Woody Harrelson aveva appena compiuto quarant’anni, e si considerava un attore finito. E così, aveva fatto quello che molti attori a un bivio della propria carriera fanno: aveva deciso di sciacquare i panni nel Tamigi. Era finito nei teatri del West End di Londra a fare una cosa che non gli piaceva – la recitazione drammatica. È lì che sono cominciati i guai grossi.

Una notte brava e un’orgia con tre donne dopo, Woody Harrelson passava una sera nella City completamente ubriaco, coi cocci del suo matrimonio tra le mani, inseguito dalla polizia dopo aver vomitato in bocca a una sconosciuta, spinto un senzatetto in sedia a rotelle e danneggiato l’interno di un taxi.

Fin qui ok. Cioè, certamente fuori dalla gamma dei comportamenti accettabili per un essere umano, ma comunque un episodio dimenticabile, a Hollywood, una volta seppellito dagli addetti PR e dalle sabbie del tempo. Oggi, gli eventi di quella sera potrebbero venire definiti “fatti alternativi”. Ma il perdono offerto dal passare del tempo non bastava. Quindici anni dopo, Woody Harrelson ha deciso di fare ammenda in un modo particolare, rivisitando quella notte attraverso un processo particolarmente meticoloso: un film. Suo esordio alla regia. Proiettato in tempo reale. Girato in un solo piano sequenza. Il primo della storia.

carico il video...

Alt, alt, alt. Il primo della storia? Come dice l’attore stesso, “c’è un motivo per cui nessuno l’ha fatto prima.”

Di film girati in un solo piano sequenza – ovvero un’unica inquadratura, senza stacchi di montaggio – esistono esempi illustri che ossessionano da sempre cineasti e appassionati di cinema.

Questo, per due motivi. Primo, perché la tecnica del piano sequenza ha innegabile valore a livello espressivo. Nodo alla gola di Alfred Hitchcock, l’esempio più illustre di un film girato in questa maniera, è in parte un falso (gli stacchi ci sono, ma sono nascosti, proprio come farà Birdman molto più avanti). Allo stesso tempo, però, è il paradigma più rappresentativo: essendo il film basato su un testo teatrale senza interruzioni, l’utilizzo del piano sequenza era per Hitchcock la maniera più naturale di rielaborare i tempi del teatro (e la crescente suspense di quello che è uno dei thriller più riusciti del cinema).

carico il video...
Una scena, un unico piano sequenza:Quei bravi ragazzi.

Ma gli estimatori del piano sequenza non sono attirati soltanto dal valore espressivo, perché l’abilità tecnica è senza dubbio un maestosissimo specchietto per le allodole. Alla base di ogni piano sequenza c’è un virtuosismo di fondo che non passa inosservato. Coreografare una scena che si anima e muta nello spazio e nel tempo, senza stacchi, richiede un controllo assoluto; trovarsi dietro alla macchina da presa richiede gli stessi pre-requisiti, oltre alla consapevolezza di essere i primi responsabili del suo fallimento o della sua riuscita. Per questa ragione operatori/direttori della fotografia come Tilman Büttner di Arca Russa o Sturla Brandth Grøvlen di Victoria, di cui parliamo a breve, hanno il primo posto nei titoli di coda, ancor prima dei registi del film. Nobel per la Schiena Intatta, questi uomini reggono sulle proprie spalle il peso del film (oltre che al peso letterale della macchina da presa) almeno quanto gli attori che lo animano.

carico il video...

I progressi tecnologici hanno fatto sì che questo tipo di tecnica si facesse sempre più accurata: il passaggio al digitale ha permesso di non dover fermarsi per cambiare la pellicola, come doveva fare la troupe di Hitchcock e, quindi, di dover nascondere gli stacchi. Proprio il digitale ha consentito ad Aleksandr Sokurov di girare in una sola inquadratura il già citato Arca Russa, raccontando la storia del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo attraverso le epoche, con l’aiuto di duemila comparse che andavano e venivano in abiti d’epoca, e senza mai dover spegnere la macchina da presa. Nel mondo del digitale, le schede di memoria sempre più spaziose hanno permesso piani sequenza sempre più estesi: è il caso di Victoria, 144 minuti che ritraggono la degenerazione di una notte a Berlino, che comincia con un senso di minaccia velata (una ragazza straniera, quattro sconosciuti tedeschi) e si trasforma presto in un vero e proprio film d’azione. Il tutto in una sola ripresa. Il film aveva richiesto settimane di prova, e tre notti di riprese per tre separati take. Uno dei tre aveva funzionato ed era diventato, a tutti gli effetti, Victoria. Il contenuto del take? Tutto il film.

Il film da “unico piano sequenza” nasce talvolta come film tecnico, una specie di gara a chi ce l’ha più lungo, ma quando è la storia a giustificare la scelta, e non viceversa, l’espediente non si limita a essere uno stratagemma per nerd ma si trasforma in un prodigio narrativo.

Victoria è il caso più recente di un successo sviluppato su un’unica, continua, inquadratura. È anche il film che ha spinto Woody Harrelson a voler impiegare la stessa tecnica. Ma l’attore alzava la posta: non solo avrebbe scritto e diretto Lost in London (questo il titolo), non solo avrebbe recitato se stesso, ma l’avrebbe trasmesso dal vivo. Proiettato contemporaneamente in 500 cinema statunitensi e in un cinema di Londra il 20 gennaio, il film sarebbe stato mostrato al pubblico letteralmente mentre veniva fatto. Una specie di Facebook live, ma anziché tua zia che ti disinquadra mentre fai break dance c’è una troupe di trecento persone che riprende Woody Harrelson e Owen Wilson che si danno i pugni.

Quella del “programma dal vivo” è una tecnica classica della televisione, abbandonata solo dagli anni Settanta. Alcuni programmi, specialmente le soap inglesi, tornano sporadicamente a utilizzare il live come commemorazione nostalgica del tempo che fu.

È una pratica comune, tutt’oggi, per eventi sportivi, opera, teatro. Ma tutti questi esempi sono ripresi da più angolazioni, con più camere, con la possibilità di staccare da una all’altra senza soluzione di continuità. Un film dal vivo, specialmente girato in un unico piano sequenza con una sola macchina da presa, presenta una serie di difficoltà che, in genere, il cinema non affronta. A monte ci sono sia i problemi tecnici del teatro sia quelli del cinema: l’unico rifugio che hai sono le prove; dopodiché, ti dai in pasto alla folla. C’è un contrattempo con la macchina da presa? Devi andare avanti. Ti dimentichi le battute? Devi andare avanti; ti stanno guardando in cinquecento. Non persone, cinema.

L’esperimento di Woody Harrelson si apre con un’estetica cui non siamo abituati. Se l’ossessione dai piano sequenza è un po’ il culmine dello snobismo cinematografico (insomma, se riconosci le inquadrature senza stacco ti piace un tipo di cinema), Harrelson mette a tacere quell’autosegregazionismo del cinefilo. Tamarramente, spara a tutto schermo un titolo brutto, con tanto di Union Jack e font opinabile. E poi, poi c’è la compagnoneria: la diretta viene introdotta da una serie di messaggi filmati degli amici famosi: un montaggio di video girati col telefonino da Emma Stone, Jesse Eisenberg, Jennifer Lawrence, eccetera, mette in chiaro un concetto: “Abbandona la nave, Woody, perché la tua è un’idea da pazzi e non puoi che fallire.” È una maniera scaramantica di scongiurare gli errori, o un tentativo di farsi perdonare in anticipo?

C’è da dire che Lost in London ingrana solo a qualche scena dall’inizio: sulle prime, osserviamo Harrelson lasciare il palco (il famigerato spettacolo “drammatico” che ha scatenato la sua autodistruzione) lamentandosi di quanto preferisca il genere comico. La recitazione è incerta, i volti degli attori sono troppo poco illuminati, la trasmissione via satellite va a scatti e, di tanto in tanto, il sonoro scompare. Insomma, tutti se la stanno facendo un po’ sotto. Più tardi, Harrelson esce dall’edificio e incontra sua moglie in un ristorante – lì, lei scoprirà quello che è successo la notte precedente (l’orgia), e scoppierà il litigio scatenante. La camera segue Harrelson per strada, nelle auto, nei bagni; ventiquattro fonici fanno in modo che i suoni della Londra circostante non dirottino il film.

La sequenza che innesca veramente Lost in London e che rivela l’agglomerato di talenti che l’hanno reso possibile avviene subito dopo, in un club: Harrelson incontra il suo più caro amico, Owen Wilson nel ruolo di Owen Wilson, e gli chiede consiglio su come rimettere in piedi la sua vita. Durante la scena, che include il più puntuale dissing di Wes Anderson mai registrato (“Il problema è che tu Wes non lo capisci” “no, no, lo capisco e tutto. È che non mi interessa”), viene dimostrato tutto il potenziale comico di Woody Harrelson sceneggiatore ma, soprattutto, la fondamentale riuscita del piano sequenza per un progetto simile: non si potrebbe immaginare Lost in London se non in quest’ubriachissima peregrinazione per strade e locali, senza stacchi, a rendere in maniera fedele la disintegrazione fisica e mentale del protagonista (molto più efficacemente che in quelle sequenze di film in cui i personaggi provano una droga e tutto, intorno a loro, diventa sovraesposto e psichedelico).

Peccato che la vera scena madre sia questa, e la forza motrice del progetto si esaurisca qui: l’inseguimento in taxi e l’arresto di Harrelson, ovvero la seconda metà del film, mancano della coreografia e del senso di compattezza della scena del club. Certo, ci sono scambi di battute efficaci (uno dei quali avviene durante una telefonata di Bono degli U2) a riprova del fatto che tragedia + tempo + Owen Wilson = commedia, ma per il resto il film si è fermato in quel club in cui si sparlava di Wes Anderson.

Lost in London è un film imperfetto, che non ha mai cercato di essere perfetto. Perdio, fosse realizzato per una normale uscita nei cinema, sarebbe difficile giudicarlo un buon film. Ma non è nato per questo, e non verrà mai più proiettato in un cinema. E così, Lost in London si dimostra un costoso esperimento, girato nell’unica maniera appropriata al contenuto che vuole trattare – senza stacchi, senza furioso controllo estetico, un po’ ubriaco, pieno di comparse famose: un po’ come la vita di Woody Harrelson nel 2002. Come succede per l’opera, per i musical, e per il teatro, è impossibile scorporare ciò che si è visto dal concetto di evento. Ciò che lo rende un’esperienza è l’idea di stare guardando Lost in London alle due di notte in un cinema di Londra, e sapere che tutto ciò che vediamo sta accadendo veramente a due isolati di distanza (e stava accadendo, senza prove generali, quindici anni fa nella vita vera). La sensazione che qualche migliaio di persone, in contemporanea, stesse sperando con tutte le proprie forze che Woody Harrelson ce la facesse è ciò che lo rende un esperimento riuscito.

Laura Spini
Nata a Bergamo, non è la sua omonima Google vittima del raggiro di una santona. Ha tradotto e collaborato per una serie di case editrici e riviste italiane, sulle quali ha scritto di cinema, videogiochi, e pistoleri memorabili.

PRISMO è una rivista online di cultura contemporanea.
PRISMO è stata fondata ad Aprile 2015 all’interno di Alkemy Content.

 

Direttore/Fondatore: Timothy Small

Caporedattori: Cesare Alemanni, Valerio Mattioli, Pietro Minto, Costanzo Colombo Reiser

Coordinamento: Stella Succi

In redazione: Aligi Comandini, Matteo De Giuli, Francesco Farabegoli, Laura Spini

Assistente di redazione: Alessandra Castellazzi

Design Direction: Nicola Gotti

Art: Mattia Rinaudo

Sviluppatore: Gianmarco Simone

Art editor: Ratigher

Gatto: Prismo

 

Scriveteci a prismomag (at) gmail (dot) com

 

© Alkemy 2015