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Musiche post-globali, culture digitali, postcolonialismo audio e auto-tune berbero. Un'intervista a Jace Clayton in arte Dj Rupture, fresco dell'uscita di Uproot, il suo primo libro.

Nel 2001 l’etichetta californiana Tigerbeat6 pubblicò Gold Teeth Thief, un mixtape di circa un’ora firmato dal musicista americano Jace Clayton, in arte DJ Rupture. Realizzato con tre piatti, il mix mescolava una quarantina di tracce prese dall’hip hop come dalla jungle, dal ragga come dalla musica araba, e a un certo punto affiorava persino la Visage di Luciano Berio. Collezionò recensioni entusiaste e finì nella playlist di fine anno del mensile The Wire, e adesso il suo autore ha pubblicato un libro che parte proprio da qui: da come nacque quel mix, da come questo originariamente si diffuse online e in cdr, e dalle geografie da cui questo pescava.

Il libro si intitola Uproot – Travels in the 21st Century Music and Digital Culture: è il racconto morbido e colloquiale in cui Clayton/Rupture parla di “world music” e auto-tune, archivi audio e neocolonialismi musicali, “musica etnica” ed etica in musica. E poi parla di tribal guarachero, electro chaabi, cumbia sonidera, dancehall: insomma di quei suoni (dell’oggi) che attualmente compongono il caotico bricolage post-globale, provenienti di volta in volta dall’America Latina, dal Medio Oriente, dall’Africa e, dopotutto, anche da casa nostra. E più in generale da quelle rotte che in passato categorizzavamo alla voce “musiche del mondo” e che oggi stanno nelle geografie espanse della rete.

Di questi temi, Jace parla in maniera suadente e mai accademica, mettendo in crisi i molti stereotipi “world” che da sempre riempiono la stampa musicale, e proponendo (sghignazzando) un approccio acuto nel fare ricerca. Ho quindi intercettato Jace a distanza tra Berlino, Casablanca e New York (città in cui vive e lavora) e gli ho fatto un po’ di domande sul suo libro, prima di accoglierlo questo weekend in occasione di S/V/N #MASH a Milano.

La copertina di Uproot, appena pubblicato da Farrar, Straus and Giroux.

Prismo: So che sei appena atterrato a Casablanca. Hai già passato un po’ di tempo lì a fare ricerche sull’uso creativo dell’auto-tune nella musica pop berbera, e hai dedicato all’argomento un capitolo dettagliato di Uproot (con un titolo fantastico: Auto-tune gives you a better me). Cosa ti ha portato di nuovo in quei luoghi?
Jace Clayton: All’inizio, il motivo principale era di passare un po’ di tempo con un gruppo marocchino importante, i Ness El Ghiwane. Due dei membri originari sono ancora lì, e uno di loro è molto malato, quindi era fondamentale per me andare a intervistarlo. Ma due settimane prima del viaggio ho iniziato a pensare: e se portassi un po’ di gente per girare un video mentre sono a Casablanca? Quindi ho organizzato un gruppo di fretta, una cosa completamente fai-da-te, e abbiamo passato giornate intense a visitare posti e persone nella città (di alcuni avevo parlato nel mio libro, di altri no), e poi a girare video, fare interviste, sentire musica, osservare la vita in città…

Sono anche curioso di sapere qual era il tuo umore una volta arrivato a Casablanca, visto che la sera prima avevi suonato al Berghain di Berlino per Janus
Era la mia prima volta al Berghain e quel posto non potrebbe essere più diverso da Casablanca! Il Berghain è… kitsch esclusivo. È un club con un design incredibilmente buono, ma fa anche capire bene come questo tipo di “bel design” tradisce quasi sempre elementi paternalistici: è un po’ come quando il sistema cerca di pensare per te, e pretende di prendere delle decisioni “per il tuo bene”. Quindi avevo questi pensieri che mi ronzavano in testa quando sono atterrato, perché Casablanca fornisce al contrario un ottimo esempio di utilizzo dei luoghi dal basso. E questo fin dagli anni ’50 e dal periodo postcoloniale, quando tutti gli architetti francesi progettarono edifici e case popolari, che i residenti ribaltarono e riconfigurarono completamente. E poi c’è il tipico, generale caos poliglotta africano… Insomma, passare dal Berghain a Casablanca non è stato esattamente uno shock, quanto una specie di “decompressione culturale”: come quando stai male perché risali troppo in fretta dall’acqua, e passi attraverso pressioni diverse.

Cosa avevi suonato al Berghain? Sono curioso di sapere se a volte segui – consciamente o no – le stesse geografie in cui ti trovi fisicamente quando sei in tour. Tipo, suonare dei ritmi più arabi/marocchini la notte prima di volare a Casablanca…
I miei dj set cambiano sempre a seconda di dove sono, e in effetti al Berghain ho suonato un set strano, particolare, anche se non c’era musica magrebina. Mi piacerebbe averlo registrato…

Torniamo a Uproot: mi è piaciuto molto leggere l’ultima parte del libro, dove parli del tuo viaggio in Libano e del modo in cui ti sei rapportato con l’AMAR, l’Arab Music Archiving and Research Foundation di Mustafa Said. In un’altra parte del libro racconti poi di aver perso molti mp3 dopo che il computer su cui li avevi salvati è morto. Ecco, mi interessa quest’idea di archiviazione nell’era digitale. Qual è il tuo rapporto con gli archivi?
Con gli archivi ho una relazione complicata: anzi, più che complicata è un disastro! Prima di tutto, negli ultimi anni ho visto quanto poco del mio lavoro come DJ Rupture sia disponibile sulle piattaforme di streaming. Fa male vederlo: sono stato letteralmente cancellato dai risultati per colpa di questi algoritmi che rintracciano i sample, e i siti di streaming commerciale sono pur sempre degli archivi di centrale importanza. Ma al tempo stesso, anche il mio archivio personale è un casino: i dischi, i file, i progetti, sono tutti disorganizzati, e questo ovviamente per me è un problema. Il mese scorso ho incontrato David Byrne nei suoi uffici, e la sezione centrale del suo loft è un muro con mensole piene di ogni tipo di materiale, archiviato, indicizzato e organizzato benissimo!

Dimmi di più del tuo incontro con David Byrne…
Il suo team di produzione mi ha invitato a parlare con David di Uproot. Hanno registrato la conversazione e ho messo insieme una selezione di canzoni per il loro progetto radio mensile. È successo appena prima che andassero in California per un altro progetto ancora, quindi non so quando verrà pubblicato…

Gli hai parlato della tua idea di trasformare la world music in una “world music 2.0”?
Sì, certo. Ha capito subito quello di cui stavo parlando. È fantastico parlare con artisti così aperti a nuove idee, quando pur essendo in giro da tanto tempo continuano ad ascoltare e a conservare quel senso di curiosità e meraviglia… Quindi sì, gli ho parlato per esempio di come viene utilizzato l’auto-tune nella vocalità araba, e David ha tirato fuori l’argomento dei melismi prima ancora che lo facessi io! Un suo assistente ha chiesto cos’era un melisma, e lui ha fatto questa dimostrazione incredibile, divertentissima: “oh, è quando le persone cantano COSÌ…”

In alcune parti dell’Africa, la conservazione delle proprie radici musicali non è considerata tanto importante. È più una cosa occidentale: forse è per questo che a Byrne interessa molto, e probabilmente è per questo che le sue mensole sono così ben organizzate!
Vero! La parte del mio libro sul Congresso del Cairo del 1932 affronta proprio questo tema: cosa succede quando la spinta a conservare le radici è anche un impulso coloniale dell’Occidente?

Mi ricordo anche un pezzo molto famoso di Chief Boima su questo argomento, scritto per Africa Is A Country: The Scramble for Vinyl. Era quello in cui se la prendeva con i cosiddetti diggers occidentali che vanno in Africa a caccia di rare grooves di epoche passate, e che finiscono per fornire una visione distorta di quello che le musiche africane sono davvero, tanto più oggi.
Giusto. Ma sai, personalmente davvero non mi interessa più l’ennesima compilation di “grande musica dimenticata da qualche parte in Africa” messa insieme da americani o europei. Certo, molta di quella musica è incredibile, ma l’impulso generale a storicizzare finisce per essere un po’ strano, perché rende difficile vedere o capire cosa sta succedendo in quei posti ora, e come le persone che vivono lì pensano al proprio passato musicale. E poi stabilire quale sia la “musica di qualità” è sempre un lavoro nostalgico, conservatore.

Immagino che a volte dipenda anche dal modo in cui affronti la ricerca, no? Da questo punto di vista credo che molti dei tuoi progetti che riguardano una collaborazione o l’analisi profonda di un tema in particolare – come l’auto-tune nella musica pop berbera – possano essere un buon modo di uscire dagli stereotipi e dagli approcci imperialisti.
Esattamente! Ci sono talmente tanti modi di occuparsi della musica che si ama. Non importa se è musica che consideri parte della tuo patrimonio culturale, o se viene da un posto di cui non sai nulla. Quello che importa è come la esplori. Magari quando dico che sono stanco delle compilation pubblicate dai diggers sono un po’ approssimativo. Piuttosto dovrei dire: mi piacerebbe che le persone utilizzassero anche altri formati. Succede, certo. Penso solo che dovrebbero esserci più archivi collaborativi, più lavori di auto-archiviazione che si sentano liberi di evitare una piatta storicizzazione. In altre parole: è ora di incasinare gli archivi, oltre che gli archivisti.

Per quanto mi riguarda, sentivo davvero il bisogno di dedicare un intero capitolo all’utilizzo dell’auto-tune nel pop berbero. Perché ci vuole tempo per esplorare gli strati e le complessità della storia, e senza farmi davvero delle domande e pensare a fondo a questi aspetti, non sarei andato da nessuna parte. Non avrei potuto portare il lettore con me in questo viaggio dalla tecnologia globale californiana fino ai piedi delle colline marocchine, e dare senso a questo viaggio. Più ti avvicini a qualcosa, più noti i dettagli. E per rispettare quei dettagli, anche le formule retoriche e la strutture che usi devono avere una loro forma. Io almeno la penso così.

Mi piace molto il modo in cui ad sempio Christopher Kirkley del blog Sahel Sounds “incasina gli archivi”. Hai visto Uchronia, la sua straordinaria collezione di registrazioni sul campo provenienti da “realtà alternative”? Ha fatto anche un lavoro incredibile con il libro incluso nel disco, con quelle immagini 3D… Lavora su una geografia specifica trasformando l’aspetto sonoro e quello visivo in un modo molto profondo e poetico.
Esatto. È un lavoro stimolante. E per arrivare dov’è ora e fare cose così, Christopher ha dovuto passare anni in Sahel, imparare la lingua, creare connessioni, lavorare e guadagnarsi la fiducia delle persone. Non è il risultato di una “toccata e fuga”, ma di anni di impegno e collaborazioni.

Mi ha sempre ossessionato la rappresentazione grafica/estetica dei generi musicali. Ad esempio, in America Latina la cumbia sonidera ha un modo tutto suo di comunicare le feste, usando loghi simmetrici e tecniche cut & paste. Ricordo di aver parlato di questo con Mariana Delgado di Proyecto Sonidero a Città del Messico, che stava raccogliendo materiale storico di tutti i tipi – poster, copertine di cd, adesivi, volantini ecc – da diversi periodi dei baile sonideros. Mi racconti di un particolare ricordo grafico che ti ha colpito mentre facevi ricerca musicale?
È stato il poster per Saadia Tihihit ad Agadir, Marocco. Per capirci, quello che vedi qui:

Stavo camminando per la città, quando l’ho visto: usa tre lingue, tre tipi diversi di caratteri (l’alfabeto occidentale, la scrittura araba e quella Amazigh Tifinagh) e un sacco di Photoshop, e raffigura una specie di ragazza tradizionale idealizzata. Il poster mi ha aiutato a capire quanto la tradizionale musica nuziale berbera (tra tutte le cose!) fosse strettamente legata all’utilizzo di programmi come auto-tune e Photoshop, nonché come questa idealizzazione per mezzo del ritocco digitale possa aiutare a rafforzare gli stereotipi di genere. Ma è anche un poster inconfondibilmente berbero: diversi linguaggi, diversi caratteri, che sono comunque parte della vita.

Pop berbero a parte, esplori ancora le nicchie musicali di New York? Te lo chiedo perché mi ricordo che una volta che ci incontrammo a Casablanca girammo ore per bar e piccoli club a caccia di materiali e musica dal vivo, anche perché quando viaggi cerchi di catturare il più possibile di un luogo, no? Di solito però sono cose che succedono di meno quando sei nella tua città di origine, anche se in Uproot – parlando di quanto sono stati bravi a vendere Omar Souleyman a un pubblico occidentale – citi Bay Ridge a Brooklyn come un’area dove la musica dabke si è molto diffusa.
Guarda, mi viene in mente questo parco a sud di Brooklyn dove delle signore cinesi si trovano a fare aerobica: mettono su un vecchio stereo questa musica per synth fantastica, strana, molto ripetitiva, che sembra un po’ del grime reinventato da una signora cinquantenne di Shenzhen. Quindi vedi, a New York ci sono sempre musiche diverse: da questa roba nei parchi ai gruppi salsa di quartiere che suonano nei block party, fino ad arrivare ai cumbia sonidera party di cui parlo nel libro…

A proposito di New York: mi parli della tua esperienza come co-curatore l’estate scorsa del PS1 Warm Up per il MoMA? Qual è stato il tuo contributo?
Warm Up è la serie di eventi che si tengono all’aperto al PS1: il nostro l’abbiamo curato come gruppo e ci sono stati un sacco di incontri e di discussioni, per dare tutti insieme una forma generale ai temi e alla line-up. Detto questo, io ero quello nuovo: la maggior parte del gruppo lo faceva già da anni. Le linee guida sono abbastanza dure – sono sei ore di programmazione ogni sabato per l’estate e nessuno dei musicisti poteva aver già suonato lì prima – e il PS1 è uno spazio bello grande, ci stanno migliaia di persone, quindi c’erano in gioco diversi fattori. È completamente diverso dalla curatela di una mostra di un artista visivo, dove si può lavorare per mesi e mesi su una singola mostra. Ma questa è un tendenza diffusa, no? I musei includono sempre più musica e performance nella loro normale programmazione.

Sì, adesso va decisamente così. L’artista e critica Hito Steyler ne ha parlato in un saggio  intitolato The Terror of Total Dasein – Economies of Presence in the Art Field. Racconta di come l’economia dell’arte contemporanea è legata all’economia della presenza.
Hito Steryl mi piace moltissimo, ma non ho ancora letto quel saggio.

C’era qualche artista che volevi fosse presente al PS1 ma non sei riuscito ad avere?
Riguardo a Warm Up, far ottenere agli artisti stranieri i visti e i permessi necessari è stato un bel problema. Un’altra cosa da tenere a mente è che non c’era nessuno sponsor, il che è fantastico ma anche complicato per gli artisti che magari stanno pianificando un tour e  ricevono offerte per eventi sponsorizzati o festival che non sono neanche lontanamente così interessanti, ma possono pagare un po’ di più.

Capisco… Ma dove si vedeva di più la tua influenza nel programma?
Al PS1 mi sono ritrovato con un vecchio amico, Crito della Broklyn Beats: qualcuno aveva suonato un gran bel DJ set noise nel pomeriggio e abbiamo iniziato a chiacchierare di breakcore, musica sperimentale, cose così. E Crito mi ha detto: “Jace, sei come un curatore ombra: la tua presenza si vede più da chi non è nella line up che da chi c’è!”. Abbiamo riso, ma aveva ragione. Molte curatele musicali si basano su dei “preset” – sai, chi fa scalpore in un paio di siti musicali, chi ha quell’album che gira bene, chi ha una storia che in quel dato periodo può interessare alla stampa… Ma molto di quello che faccio come DJ o curatore o scrittore è cercare di scavare più a fondo. Non di cavalcare semplicemente l’onda.

DJ Rupture racconterà Uproot sabato 3 dicembre al Mudec e si esibirà domenica 4 dicembre al Buka di Milano. Il programma completo di MASH 2016 lo trovate qui.

Simone Bertuzzi
Simone Bertuzzi è il fondatore di palmwine.it, un sito dedicato a movimenti, suoni e immaginari del mondo post-globale. Come dj, suona regolarmente proponendo sonorità border-crossing catalogabili sotto la definizione di Tropical Bass.

PRISMO è una rivista online di cultura contemporanea.
PRISMO è stata fondata ad Aprile 2015 all’interno di Alkemy Content.

 

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