Breath of the Wild non segna solo un punto di svolta per la serie di Zelda e per Nintendo, ma soprattutto per il suo creatore. Eiji Aonuma usa la sua ultima opera per celebrare la libertà e ammonirci sulla potenza della natura.
Che ricordo abbiamo del 1999? La fine del ventesimo secolo, la nascita dell’Euro. Per i cinefili, Benigni che vince l’Oscar. Per me, gli esami di terza media e la prima PlayStation che mi aspettava a casa con Final Fantasy VIII. Che anno, per una dodicenne!
Eppure, fuori dalla mia modesta ottica personale, mi rendo conto che il 1999 per il mondo non è stato forse così memorabile; poi immagino di porre la stessa domanda a Eiji Aonuma, l’attuale producer della serie The Legend of Zelda, per capire come si sentirebbe oggi guardandosi indietro a osservare i risultati di un percorso di vita iniziato proprio quell’anno.
Io (nella mia testa, in un risibile esercizio di fantasia): “Aonuma-san, qual è il suo ricordo più importante del 1999?”
Eiji Aonuma (così gentile da venire nei miei pensieri a rispondermi): “Il 1999, lo ricordo ancora come fosse ieri, ero nel pieno dello sviluppo di Majora’s Mask. Un anno prima Miyamoto-san mi aveva chiesto di lavorare a Ura Zelda, ma io declinai l’invito e dissi che avrei preferito realizzare un nuovo capitolo della serie. Lui prima mi sgridò, poi mi mise a capo del progetto. Avevo due anni di tempo, e dovevo fare meglio di Ocarina of Time.”
Riassunto in queste non-parole di Aonuma – che prendono tuttavia spunto da un suo discorso molto più ampio tenuto durante la GDC del 2004 – c’è la mia idea di quello che doveva significare continuare a fare Zelda in un mondo che aveva ormai trovato il suo capolavoro: come ti approcci a una serie appena diventata leggendaria, oltre che nel nome, anche nei fatti? Come raccogli il testimone di uno dei più grandi game designer della storia? In definitiva: come puoi anche lontanamente pensare di riscrivere la storia, dopo Ocarina of Time?
Un vento di cambiamento
“È un’impresa impossibile”: io, probabilmente, mi sarei detta così. Ma Aonuma no, lui è testardo, ha addirittura il coraggio di contraddire Miyamoto. Per questo è l’unico in grado di portare avanti l’opera iniziata dal suo mentore più di dieci anni prima, ma può riuscirci solo mettendo se stesso dentro Zelda: la sua visione, la sua esperienza di vita. Proprio come Miyamoto aveva fatto dal primo capitolo della serie in poi.
Troviamo allora tutta la sua agitazione nel tempo impazzito di Majora’s Mask, che riflette il senso di urgenza di un game designer alle prese con un compito enorme e delle scadenze impossibili. E c’è un passato ingombrante con cui è difficile confrontarsi laggiù, sommerso con Hyrule tra i morbidi flutti del mare di Wind Waker. Il finale del gioco è ancora oggi tra i più toccanti della serie: non vivete nel rimpianto del passato, il futuro è un oceano ricco di possibilità ma solo per chi sa andarle a cercare. All’epoca, rinnegare la tradizione è una scelta per la quale Aonuma affronta, quasi da solo, l’impietosa alzata di scudi dei fan che avrebbero voluto la serie sempre uguale a se stessa. La risposta concreta alla ferocia di quelle critiche diverrà Twilight Princess, un’opera nata dalla paura di tradire ulteriormente le aspettative di un pubblico dimostratosi incapace di accogliere il cambiamento e, forse per questo, nelle sue quaranta e più ore di durata il gioco parla proprio di paura: quella del diverso, quella di non essere accettati. Skyward Sword, dal canto suo, vede la creatività di Aonuma e del suo team sacrificata alle ragioni del Wii: un Legend of Zelda che vuole “volare alto” ma che viene inesorabilmente riportato a terra dalla necessità di dimostrare che l’applicazione del motion control ha un senso anche in esperienze complesse e strutturate, superando i confini casual del pur rispettabilissimo Wii Sports.
“Ora, voglio vivere qui, sentire la terra sotto i miei piedi e levare lo sguardo al cielo per vedere le nuvole… senza mai dimenticare di proteggere la Triforza.
… Link…
E tu che farai?”
È la principessa Zelda che parla nel finale di Skyward Sword, ma è anche e soprattutto Aonuma che racconta di sé attraverso (The Legend of) Zelda, come da diciassette anni a questa parte non ha mai smesso di fare.
Con Breath of the Wild ci parla finalmente di libertà.
Da dove cominciamo?
Link si risveglia dal suo sonno rigeneratore ed esce dalla caverna – praticamente l’unica nel gioco, ma mi riservo il beneficio del dubbio – che lo ha tenuto nascosto e protetto per ben cento anni. Corre verso l’altura in lontananza e davanti a sé vede risplendere silenzioso il panorama di Hyrule, verde, immenso e apparentemente sconfinato. Poi la telecamera declina dolcemente verso destra, rivelando il Santuario del Tempo e un personaggio misterioso poco distante.
Sono passati solo pochi minuti, ma Breath of the Wild ci ha già detto molto più di quanto siamo in grado di capire al momento, delineando i propri orizzonti tematici e narrativi. In questo gioco apprendi osservando ciò che ti circonda e la tua prossima destinazione è sempre a portata di sguardo. Ecco il tuo primo obiettivo, quell’uomo laggiù: ora che l’hai visto, raggiungilo!
In un certo senso è una rivoluzione copernicana, un cambio di prospettiva che avvertiamo come necessario quando viene applicato a un genere, quello dell’open world, che sta vivendo un’innegabile fase di stanca. Liberi dall’incombente necessità di consultare la mappa – rimossa persino dal gamepad del Wii U perché sottraeva qualcosa al vivo dell’esperienza – è la stessa Hyrule a suggerirci discretamente dove andare. I punti di interesse sono fari di luce incastonati nel paesaggio: dalle torri Sheikah ai sacrari, passando per il Monte Morte al colosso Vah Medoh, si potrebbe finire il gioco senza aprirla mai. Proprio per questo motivo la verticalità impressa al mondo diventa cruciale: raggiungere una posizione sopraelevata per dominare lo scenario circostante è uno dei meccanismi retributivi più efficaci prestati all’esplorazione, e l’idea funziona così bene che, una volta superato lo spaesamento iniziale, sono convinta di aver passato ad arrampicarmi almeno dieci delle mie settanta ore e più di gioco – peccato davvero non avere delle statistiche in proposito…
Lezione numero due: fai come ti pare
Qualsiasi Legend of Zelda, da un certo punto in poi, o in un passaggio definito della trama, intavola un discorso preciso direttamente con il giocatore. Può farlo nei panni di un bambino con la maschera di Majora che ti dà del “cattivo”, o attraverso i foschi cambi di tono di Ocarina of Time che accolgono l’ingresso di Link nell’età adulta. Questi momenti di solito servono a svelare la chiave di lettura della storia, il significato di quello che abbiamo vissuto. Breath of the Wild, tuttavia, mette in chiaro i suoi intenti fin da subito affidando questa funzione rivelatrice al personaggio misterioso di poco fa, l’unico di cui Aonuma abbia voluto scrivere personalmente i dialoghi. La sola lezione che l’uomo si prende la briga di impartire è riassumibile in “Non sono qui per dirti cosa fare, devi arrangiarti” ma anche “Attento, perché questo è un mondo che punisce gli sprovveduti”.
Sono dunque solo due le linee guida fondamentali che l’altopiano-tutorial ci dà, ma sono indicazioni che valgono molto più di qualsiasi ora passata a radunare capre in una stalla. Infatti, in Breath of the Wild ogni approccio all’esplorazione può essere, anzi deve essere personale e originale anche nelle sue espressioni più estreme. Una novità quasi assoluta per una serie che – da A Link to the Past in poi – ha ceduto sempre più alla tentazione di incastrare il giocatore in un percorso predeterminato, arrivando a dispensare consigli spesso innecessari in maniera stolida e assillante (parlo proprio di te, Faih).
Ma facciamo un esempio: nella prima ora di gioco, per ottenere la paravela si parte alla scoperta dei primi quattro sacrari, due dei quali si trovano su pendici innevate dove il freddo determina un costante consumo di energia – il che significa morte certa dopo una manciata di minuti e anche meno. Per ovviare al problema e raggiungerli senza rimetterci la pelle, le strategie possono essere molteplici ed è confrontandomi con un paio di amici, che per comodità denominerò A e B, che il concetto espresso in precedenza mi è parso evidente.
Amico A, il classico completista perfettino e “Zeldiano” fino al midollo, ha subito dato per scontato che ci fosse una qualche tunica antifreddo da trovare per superare la sfida e si è quindi incamminato alla ricerca della stessa accontentando le richieste del vecchio dell’altopiano che la custodiva. Amico B, molto meno paziente e non un grande amante delle soluzioni cervellotiche, è semplicemente partito come un panzer alla conquista delle aree proibite ingozzandosi di cibo ogni tot per non morire assiderato. Io mi sono ritrovata più o meno a metà strada tra l’approccio paziente e ragionato e quello dello spaccone incosciente anche perché, mai come prima, avevo voglia di sbolognare il tutorial il più in fretta possibile. Leggendo pigramente i consigli nelle schermate di caricamento ho sgamato prima di loro come usare lo scudo a mo’ di snowboard, quindi ho valutato, grazie all’infallibile metodo “a occhio”, che con una pozione antifreddo di cinque minuti per l’andata e un ritorno scivolando giù per la montagna a perdifiato avrei dovuto farcela. Fortunatamente me la sono cavata bene, e mi sono comunque beccata la tunica alla fine. Ma se avessi valutato male i tempi?
Il gioco è perfettamente al corrente che pianificazioni approssimative come la mia e quella di Amico B possono portare a inevitabili vicoli ciechi: ti ritrovi in cima alla montagna e non hai le risorse necessarie per tornare giù prima che il freddo abbia la meglio sui tuoi miseri tre cuori di partenza. La tua unica scelta, a quel punto, è perdere preziosi minuti di gioco e teletrasportarti in un posto sicuro o affidarti a qualche (auto)salvataggio per tornare indietro e pensare meglio al da farsi. In ogni caso, il messaggio è chiaro: gli sprovveduti vengono puniti (lo dice anche Aonum… pardon, il vecchio) ma non così tanto da far perdere loro la voglia di provare.
Al “vai dove vuoi, quando vuoi” Nintendo aggiunge quindi anche il “come vuoi”, disseminando possibilità e alternative in ogni angolo del mondo. A ciò va a sommarsi una fisica degli oggetti che arricchisce la formula alla maniera dei sandbox, rendendo l’universo di gioco, se non proprio realistico, comunque estremamente credibile. C’è infatti un certo numero di bugie ben congegnate che sostiene la struttura di Breath of the Wild; alcune sono più evidenti (come ad esempio il galleggiamento innaturale del ghiaccio sull’acqua), altre meno, ma entrambe fanno da necessario collante all’elementare sistema di interazione tra e con gli elementi, rendendo questo nuovo Zelda un open world intuitivo ma, allo stesso tempo, estremamente versatile, capace di raccontare la libertà (anche) attraverso il gameplay.
Si tratta di un game design originale e brillante in grado di farti dimenticare che, in fin dei conti, sei pur sempre in un videogioco e qualcuno ha già deciso per te, e prima di te, quello che farai del tuo tempo a Hyrule.
Il respiro della natura
Al concetto di libertà, suggerito fin dal titolo, fa eco il tema della natura: cornice di panorami sontuosi che sembrano tratteggiati dalle matite dello studio Ghibli ma anche, e soprattutto, presenza possente e dinamica che si autoimpone sulla scena quasi a ricordare certi film di Akira Kurosawa. Nei momenti di noia o di calma apparente, un temporale può abbattersi con la sua furia squassante trasformando il contesto in cui siamo immersi. Non si tratta di un mero elemento scenografico, ma di un fattore che influenza le nostre scelte e suscita reazioni: le foreste si tramutano in luoghi spaventosi da cui allontanarsi in fretta e l’equipaggiamento di ferro diventa d’improvviso un pericolo mortale.
Così come il fulmine che mi ha stroncata mentre ero a due passi dal riparo dallo stallaggio lì vicino, o quello che mi ha vendicata – con mia somma ilarità – friggendo il Lizalfos che mi attaccava alle spalle, la natura in Breath of the Wild può essere benevola e crudele, materna e punitrice. Può sollevarti coi suoi venti leziosi verso vette altrimenti irraggiungibili o farti precipitare nel vuoto che ti eri faticosamente lasciato alle spalle se un acquazzone ti sorprende all’improvviso nel bel mezzo di una scalata. I fenomeni naturali hanno sempre avuto una certa rilevanza in Zelda, ma qui più che mai ti chiamano come giocatore a vivere il momento e l’emozione di quello che può succederti mentre percorri una strada mai battuta prima, esplori una penisola dalla forma impossibile, oppure ti avventuri nel deserto nell’orario più sbagliato. Poco importa se i personaggi e i nemici dopo cento ore di gioco cominceranno a sembrarti tutti uguali, perché hai la garanzia che quello che ti capiterà sarà sempre diverso.
Ganon, la calamità
L’antagonista per eccellenza, il Male. Nella serie, Ganon riveste da sempre un significato allegorico, che lo porta a riproporsi ciclicamente in forme sempre diverse ma comunque ricollegabili alla stessa entità. Laddove i mortali Zelda e Link non sopravvivono al passaggio delle epoche, e i valori che rappresentano si incarnano di volta in volta in uomini e donne sempre diversi, Ganon persiste al di fuori del tempo, simbolo di un male immanente che non si può eradicare. Un pericolo che incombe e minaccia Hyrule, a volte personificato in forma umana o demoniaca, ma sempre metafora delle difficoltà con cui la vita ci impone di confrontarci. Le leggende, in fin dei conti, altro non sono se non il racconto del reale in chiave fantastica che mette in scena paure antiche e ricorrenti, espressioni di un inconscio collettivo. Coerentemente, The Legend of Zelda fa esattamente lo stesso, e in Breath of The Wild le sembianze che Ganon assume ci appaiono meno che mai umane e definite, poiché il pericolo che impersona risiede proprio nella forza devastatrice della natura.
Ma perché Hyrule deve sentirsi in pericolo? Perché nel 2011 il Giappone è cambiato. Il disastro del Tohoku ha risvegliato quel senso di delicata precarietà che da sempre affligge i pensieri di un popolo abituato a ipotecare la propria sopravvivenza ai capricci imprevedibili della terra che lo ospita. Le ferite emotive di quella tragedia hanno lasciato un segno profondo che ritroviamo in Breath of the Wild, nella storia di un mondo funestato da una calamità che ciclicamente prende possesso delle forze della natura per lasciare dietro di sé devastazione e morte, ricordi dolorosi di cui non ci si può liberare. Ma in questo stesso mondo sull’orlo della catastrofe, è già fiorito il desiderio di guardare avanti, la spinta vitale di chi non rimane in attesa della venuta dell’eroe. Quando Link infine si sveglia, trova una Hyrule che ha già cominciato a salvarsi da sola.
Alcuni dettagli deliziosi nei villaggi raccontano di questo spirito di ricostruzione e rinnovamento: basta guardare gli edifici puntellati di Finterra e le case squadrate dal design più moderno che vi sorgono accanto; oppure ci si può domandare perché, per la prima volta nella serie, ci sia un’identificazione così forte degli Sheikah con il popolo giapponese. D’altra parte stiamo parlando di una civiltà tecnologicamente avanzatissima insediatasi a Calbarico, che qui ci ricorda l’antico villaggio di Shirakawa-go; di stravaganti scienziati innamorati delle proprie macchine; degli ideatori di una tecnologia sinistra e pericolosa in grado di rivoltarsi contro i propri creatori (i Colossi, i Guardiani), ma anche utile e forse indispensabile a dominare la natura, a patto che venga consegnata in mani responsabili (la Tavoletta Sheikah). Nel dualismo natura/tecnologia e distruzione/rinascita si ritrovano i temi più importanti e sensibili di un Giappone post Fukushima, e non è un caso se ne percepiamo l’eco in Breath of the Wild.
Oltre Ocarina
I riferimenti fatti finora sono di per sé piuttosto evidenti, ma la loro importanza è sottolineata nel finale nascosto, sbloccabile a condizione di aver trovato tutti i ricordi di Link nel corso dell’avventura.
[INIZIO SPOILER] Il finale “semplice” è infatti poco più di un tributo piuttosto esplicito a quello di Ocarina of Time: la principessa è di spalle, vestita dei suoi abiti regali, e quando Link la raggiunge il movimento della telecamera è quasi identico a quello adoperato nel 1998. Non a caso, quando Zelda si gira gli rivolge la domanda che tutti ci ponemmo all’epoca: nonostante il tempo li abbia nuovamente divisi, Link si ricorda ancora di lei?
È il finale della tradizione, che strizza l’occhio ai fan più tradizionalisti. In esso fanno la loro comparsa anche i campioni, e salutano dall’alto proprio come i saggi di Ocarina, con la differenza che stavolta li vediamo sparire, quasi a simboleggiare un ciclo che si chiude.
Nel finale segreto, invece, c’è la vera conclusione chiamata dal gioco: non vediamo una Hyrule in festa, bensì Zelda e Link intenti a fare piani sul futuro, di nuovo padroni delle proprie vite. Parlano di andare a controllare il livello preoccupante dell’acqua nel villaggio degli Zora, di ravvivare il ricordo delle persone scomparse, di fare appello all’impegno di tutti per ricostruire un regno ancora più grande e bello. La loro è la speranza di creare un mondo migliore, e Zelda, dismessi i panni da principessa e felice per la sua ritrovata libertà, può ora davvero percorrere la strada che aveva scelto per se stessa. [FINE SPOILER]
Poco tempo fa Aonuma aveva espresso la convinzione che questo finale avrebbe commosso i fan. A quanto pare per alcuni non è stato così, ma questo non toglie nulla all’universalità del suo messaggio. Piuttosto, ci dovrebbe far riflettere sul modo in cui siamo abituati a guardare ai videogiochi.
Arianna Buttarelli è nata lo stesso anno in cui è uscito il primo Legend of Zelda, il che dovrà pur significare qualcosa. È stata deputy editor di Game Republic e Xbox Mag 360, prima di decidere che un giorno sarebbe riuscita a leggere il Genji Monogatari in lingua originale. Al momento si è fermata al titolo.