Domani il pubblico potrà provare la nuova console Nintendo e l’attesissimo The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Abbiamo ottenuto una copia in anteprima e dopo ore di gioco il giudizio è nettamente positivo.
Nelle preview di Switch uscite settimana scorsa, i termini più usati per descrivere la nuova console Nintendo sono stati varie declinazioni di “innovazione”. È un termine solitamente abusato, ma stavolta è impossibile essere in disaccordo; eppure, secondo me manca quello specifico aggettivo qualificativo che in ambito tecnologico separa il gadget di nicchia dal prodotto di massa, la buona idea dall’oggetto di culto: “intelligente”.
Switch è infatti intelligentemente innovativo come lo sono stati in passato il NES e il Game Boy: macchine forse non all’avanguardia tecnologica ma comunque competitive, il cui obiettivo primario era, più che primeggiare con grafica e sonoro di prim’ordine, entrare nella quotidianità dei giocatori del tempo. Lì stava la loro intelligenza. Nello specifico, il primo era stato pensato per essere esteticamente assimilabile all’arredamento di un salotto e, così facendo, coinvolgere tutta la famiglia nell’attività videoludica, mentre il secondo aveva anteposto la portabilità alla potenza, scartando quindi uno schermo a colori a favore di una maggiore durata delle batterie.
Analogamente, Switch non nasce per partecipare alla corsa alla risoluzione o alla conta poligonale più alta (il segmento è già adesso sovraffollato e, come scrissi qualche tempo fa, si tratta di una gara che nel medio-lungo termine verrà probabilmente vinta dai PC), bensì per offrire un’esperienza AAA nelle meccaniche ovunque ci si trovi, in casa o per strada. La scommessa della casa di Kyoto è quindi principalmente quella di portare il gaming contemporaneo fuori dai salotti e di offrire come valore aggiunto la possibilità del multiplayer in remoto e in locale. Fermo restando che l’effettivo raggiungimento di tali obiettivi si potrà verificare solo nel lungo periodo, perché dipendente da diversi fattori difficili da prevedere ora (principalmente una fornitura regolare di titoli di qualità), dopo una settimana passata in compagnia di Switch mi sento di dire che le premesse per un successo ci sono tutte. Non solo: per la prima volta dopo molti anni, sento di avere in mano una macchina che non è tanto un insieme di migliorie tecnologiche più o meno grandi, quanto un oggetto dotato di una precisa identità, che mi ha offerto un’esperienza ben al di là degli aspetti puramente tecnici.
Design
In tal senso, le prime parole d’encomio vanno al design, che mi aveva colpito positivamente fin dalle anteprime e che a conti fatti si conferma una delle migliori caratteristiche di Switch. Ormai ci siamo abituati a considerare le console come semplici strumenti di plastica utili solo a far girare in maniera ottimale un gioco, ed è per questo che accettiamo implicitamente la loro funzionale bruttezza: è il caso di Xbox One, con le sue linee tamugne che ricordano involontariamente una Volvo 740, e di PlayStation 4, che con quella bizzarra forma romboidale si colloca esteticamente a metà tra un fermacarte e un Toblerone. Tuttavia, una buona estetica può sempre fare la differenza, soprattutto se si tratta di un oggetto da portare in giro e se unita a una buona ergonomia.
Senza girarci troppo attorno: Switch è la prima console in più di dieci anni che trovo esteticamente gradevole (perlomeno nella sua versione portatile, poiché da dockata sporgono dalla basetta due centimetri e mezzo del corpo centrale), e gran parte del merito va alla scelta dei materiali: il dorso è di un metallo nero opaco, lievemente ruvido al tatto, che si sposa alla perfezione con le plastiche porose usate per la ghiera e per i joy-con. Anche la qualità dell’assemblaggio è di prim’ordine: Nintendo ci aveva abituati bene fin dai tempi del DS Lite, ma qui si è superata e la sensazione di robustezza complessiva è totale, complici i 400 g di peso – pochi se si considera l’hardware e la presenza di uno schermo in vetro (ahimé non un Gorilla Glass) – nonché il caratteristico click metallico emesso dai joycon una volta inseriti nelle guide.
Questi ultimi, attualmente disponibili in due colorazioni (una grigia, allegra come Bucarest nel ’56, e una rosso/ciano fluo decisamente più interessante), sono peraltro sorprendenti dal punto di vista ergonomico, fattore fondamentale se si pensa che sulla console gireranno titoli pensati anche per sedute ininterrotte di diverse ore; a prescindere dalla configurazione scelta (uno per mano; attaccati al corpo centrale; uniti tra loro a formare un controller di forma standard) si sono rivelati molto più comodi di quanto le dimensioni ridotte facessero presagire, perfino per chi comeme ha mani piuttosto grandi che in passato rendevano un supplizio le partite sulla PSP o al 3DS XL.
Anche senza accenderla, quindi, Switch fa da subito un’ottima prima impressione, e confesso che in questi giorni mi sono trovato a rigirarmela per le mani osservandone i dettagli, cosa che non accadeva da diverso tempo con un oggetto tecnologico.
Giocare, subito e ovunque
La stessa cura riposta nel design e nell’assemblaggio è stata dedicata anche a un’altra tradizionale caratteristica di Nintendo: la semplicità d’uso. E non mi riferisco tanto all’installazione fisica della macchina o alle modalità di passaggio da una configurazione all’altra, entrambe rapide e intuitive, quanto al software. Premesso che non è stato possibile testare i servizi online, che saranno attivati al giorno di lancio, sono rimasto impressionato dalla rapidità del sistema operativo e dalla sua immediatezza: dall’accensione al momento in cui si è pronti a giocare passano 3 secondi esatti.
Nella schermata d’avvio si trovano tutte le icone del nuovo ecosistema Nintendo (vivaddio ridotte al minimo), e passare dall’una all’altra, e poi subito al gioco, non richiede più di due passaggi. Sono dunque lontane la lentezza e la macchinosità dell’interfaccia del WiiU, e ora la famosa usabilità à la Apple è stata implementata appieno, staccando così di parecchie misure la concorrenza; resta solo da sperare che il tempo non porti Nintendo a optare per costanti aggiornamenti o per patch gargantuesche che appesantiscano una struttura che già ora è – perlomeno in modalità offline – pressoché perfetta.
Infatti, dal momento in cui Switch mi è stata consegnata in ufficio a quando ho cominciato a giocare sono passati meno di cinque minuti, ed è stato appena ho iniziato Zelda in pausa pranzo che ho potuto saggiare la validità della filosofia portante di Switch e la bontà della sua realizzazione. Fin dagli anni ’90 ho desiderato portare con me titoli AAA contemporanei per giocare quando voglio, ma finora non lo consideravo possibile per diversi motivi: vuoi per la scarsa ergonomia o la mancanza di un secondo stick, vuoi per la carenza di titoli o per la capacità di calcolo ridotta. Le console portatili possedute finora avevano sempre sofferto di carenze ergonomiche e computazionali che lasciavano in bocca un retrogusto amaro anche quando il gioco era di oggettiva qualità (Super Mario 3D Land, o Uncharted: Golden Abyss), e inevitabilmente ogni paragone con l’home gaming era perso in partenza. Quando, anziché cazzeggiare su YouTube, mi sono trovato a passeggiare per una Hyrule immensa e dettagliatissima, con il pieno controllo del personaggio e senza dover cedere a compromessi di hardware, quel desiderio è stato finalmente esaudito. Certo, Nintendo è stata furba a usare come terreno di prova proprio lo Zelda più ambizioso di sempre, ma proprio il fatto che un titolo simile – su cui tornerò più avanti – sia davvero portatile rappresenta di fatto il raggiungimento del traguardo.
L’unico caveat è la durata della batteria (effettivamente di poco superiore alle tre ore, ma ricaricabile con un qualsiasi cavo USB-C per cellulari, che diventerà entro breve lo standard più diffuso), ma si è così realizzato il sogno che i figli degli anni ’80 si portavano appresso fin dai tempi del primo Game Boy, e immagino di non essere l’unico a stupirsi di rivivere a 36 anni l’evoluzione di quel momento WOW! provato anni prima di fronte a titoli come Metroid II o Gargoyle’s Quest.
Veniamo al dunque: com’è il nuovo Zelda?
Premesso che dell’approfondimento di Breath of the Wild si occuperà più avanti un’altra persona, è impossibile parlare di Switch senza estendere il discorso al gioco che dà una prima dimostrazione delle capacità della console. Per cui voglio dedicare qualche paragrafo a quello che è un capolavoro a tutto tondo, nonché il capitolo più innovativo della saga dai tempi di Ocarina of Time.
La principale innovazione sta nel passaggio dalla classica struttura zeldiana, fatta di progresso rigidamente scaglionato in dungeon (e acquisizione di specifici oggetti utili a superarli), a un open world tradizionale, in cui l’avanzamento è più graduale e dove la libertà è fin da subito assoluta. Se questo non è un pregio di per sé, lo è senz’altro il fatto che in seguito a questo profondo cambio di struttura si torna alla necessità e al piacere di esplorare una terra vasta, variegata e misteriosa.
Buona parte di questo piacere deriva dalla magnifica direzione artistica di Satoru Takizawa che, usando un approccio acquarellato e evocativo, ha reso il mondo di Link realistico e dettagliato e al contempo etereo, sbizzarrendosi in diversi scenari impressionistici di rara bellezza senza però scadere nei tropi visivi del genere. Proprio questa varietà di ambientazioni, ulteriormente sottolineata da un ciclo temporale e climatico tra i migliori visti di recente, invoglia a perdersi tra pianure, canyon, montagne, paludi e templi abbandonati, consci che con ogni probabilità dietro a quella montagna o oltre quella pianura può esserci qualcosa di interessante. Uno spirito di esplorazione acuito anche dalla possibilità di raggiungere letteralmente ogni angolo della mappa grazie alla capacità di Link di arrampicarsi su qualsiasi superficie e muoversi su ogni terreno. A delle condizioni, però.
Breath of the Wild è difficile. Non “difficile” come potrebbe esserlo un RPG basato sulle sole statistiche, ma difficile come i Souls: pur non richiedendo gli stessi riflessi e la padronanza dei moveset propri e degli avversari, per non morire bisogna conoscere il terreno e i nemici e prepararsi di conseguenza. Ciò significa recuperare un equipaggiamento adeguato (le armi si rompono e non tutte sono ugualmente efficaci), fare incetta di alimenti e pozioni e, naturalmente, verificare che i due misuratori essenziali del nostro status – salute e stamina – siano sufficienti. In caso contrario, meglio fare un salto in uno dei 120 altari (in inglese Shrines, dei piccoli dungeon) e risolvere gli enigmi per accumulare abbastanza punti per potenziarsi; tuttavia, non essendo le loro ubicazioni segnate sulla (enorme!) mappa di gioco, bisogna trovarli uno a uno. Come? Esplorando, e rimettendo così in moto il loop principale del gioco, che si è spostato dal problem solving tipico della serie alle origini del primissimo Zelda.
Esattamente come avveniva nel primo capitolo della serie, dopo nemmeno cinque minuti dall’avvio del gioco si viene gettati in un mondo senza alcuna direzione o indicazione, muniti di strumenti elementari per sopravvivere a cui aggiungere l’esperienza personale e il buon senso. Per esempio, “impareremo” che scalare rocce bagnate dalla pioggia è una pessima idea, così come aggirarsi in un bosco durante un temporale (magari indossando un’armatura e armi in metallo), scalare vette innevate senza un’adeguata protezione dal freddo o nuotare per periodi troppo lunghi; tutte regole che conosciamo bene nella vita reale, ma che proprio per questo non ci si aspetta di trovare in un videogioco di ambientazione fantasy e il cui mancato rispetto è spesso pagato con la morte. Questa spietatezza del mondo di gioco è accentuata dall’isolamento al di fuori dei centri abitati, che trasforma la nuova Hyrule in una sorta di terra di frontiera; un isolamento bucolico, in cui la relativa assenza di esseri senzienti è colmata dal piacere dell’erba mossa dal vento o della vista di un temporale in arrivo mentre i cervi scappano al nostro arrivo. Lungi dal sembrare vuoto, quello di Breath of the Wild è un ambiente vivo, immaginifico e realistico allo stesso tempo, e che rende l’immersione nel mondo di gioco superiore a qualsiasi orgia contemporanea di indicatori di quest e attività secondarie. Esemplare anche l’utilizzo minimo della musica, che spesso si limita a isolate note di piano o a brevi melodie, lasciando il più del lavoro a un sound ambientale di prima scelta.
E se l’opzione consigliata per giocare a Breath of the Wild è uno schermo, possibilmente grosso, su quello della Switch il titolo guadagna in nitidezza e splendore, facendo passare in secondo piano alcuni problemi di pop-in e cali di framerate che si verificano sporadicamente in presenza di specifiche situazioni (effetti particellari, molti oggetti in movimento).
In conclusione, e premesso che all’attivo ho “solo” circa venticinque ore e un quarto della mappa esplorata, Breath of the Wild si è rivelato il titolo migliore per il lancio di Switch, perché non è solo un esercizio stilistico e tecnico notevole, ma soprattutto una rilettura in chiave contemporanea di uno dei franchise più famosi di Nintendo, strappandolo al – talvolta piacevole, ammetto – manierismo dei predecessori e rendendolo godibile anche per chi è cresciuto avendo come punti di riferimento più Skyrim che A Link to the Past o Ocarina of Time. Dirò di più: pur presentando dei difetti (alcuni inevitabili visto il nuovo approccio, altri meno – mi riferisco alla UI bizantina), il nuovo titolo diretto da Hidemaro Fujibayashi e prodotto da Eiji Aonuma è un’opera capace di scontrarsi direttamente con qualsiasi titolo contemporaneo e uscirne a testa alta.
In conclusione
Al di là di Breath of the Wild – e al netto di un recente problema con i joycon manifestatosi su alcune unità – restano alcuni punti poco chiari sul futuro della console. Per chi fosse interessato a una disamina più approfondita rimando a questo pezzo, ma in questa sede mi limito a elencarli per sommi capi: una barriera economica d’ingresso piuttosto elevata (se non altro in Europa, dove il prezzo della sola console è di 329€); una lineup di giochi al lancio numericamente esigua; un supporto da parte degli sviluppatori terzi ancora tutto da verificare per quantità e qualità; infine, anche un supporto sul versante online ancora tutto da provare e valutare (di positivo c’è che d’ora in poi il proprio Nintendo id sarà multipiattaforma, rendendo possibile – perlomeno in potenza – scaricare giochi e DLC già acquistati in precedenza). Non sono problemi da poco, per cui prima di decidere se acquistare Switch consiglio a chiunque di riflettere e documentarsi; il primo anno di vita è il più delicato per qualsiasi nuova console, e a maggior ragione potrebbe esserlo per un concept nuovo come questo.
Se dunque è impossibile pronosticare – almeno per ora – un successo matematicamente certo, non lo è stabilire che, nonostante alcuni punti critici legati alla calendarizzazione delle prossime uscite dei giochi, la partenza di Nintendo è tra le migliori fatte dalla casa di Kyoto negli ultimi anni. Comprare o meno la console il giorno dell’uscita è una decisione che in questo caso più che mai spetta al singolo. Per quel che mi riguarda, nonostante per principio non acquisti mai nuovo hardware al day one, se domani dovessi perdere o rompere lo Switch inviatomi da Nintendo, il giorno successivo andrei in un negozio a comprarne uno sostitutivo. Per Zelda, nell’immediato, ma soprattutto perché sono fiducioso della visione di Nintendo e soddisfatto da com’è stata realizzata.
E per una console al suo esordio, questo è il maggior complimento che si può fare.
Costanzo Colombo Reiser è nato a Milano nel 1981. Di professione grafico, nei tempi morti preferisce scrivere di musica, politica o altro. Ha scritto per Il Mucchio, L'Ultimo Uomo, Rivista Studio e L'Uomo Vogue, ed è caporedattore area gaming di Prismo.